Il Concetto di “Persone Tossiche”: Realtà o Semplice Etichetta?

Negli ultimi anni, il termine “tossico” è diventato una vera e propria moda nel linguaggio della psicologia popolare. Libri, articoli e guru del benessere ci avvertono costantemente dei danni che queste cosiddette “persone tossiche” possono infliggerci, delineandole come vampiri energetici, manipolatori subdoli e portatori di negatività cronica. Ci vengono forniti manuali e guide per riconoscerle e sfuggirle, come se fossero una minaccia onnipresente. Ma siamo davvero circondati da persone così pericolose? O è solo una costruzione culturale?

Un concetto senza basi scientifiche

Nonostante la sua popolarità, il concetto di “persona tossica” non ha alcun fondamento scientifico. Non esistono criteri empirici o studi rigorosi che ne confermino l’esistenza. Come afferma Oriol Lugo, psicologo clinico e autore del libro ¡Corta por lo sano! (Taglia per il tuo bene!), l’idea di “persone tossiche” si basa più su luoghi comuni e stereotipi che su un’analisi reale dei comportamenti umani. Lugo sottolinea che, sebbene le relazioni dannose siano una realtà, l’etichetta “tossico” non è utile per comprenderle o affrontarle.

Fabián Ortiz, psicoanalista di Vida Plena a Barcellona, concorda, definendo il termine “tossico” un’etichetta facile e spesso abusata. Questa semplificazione rischia di banalizzare la complessità delle relazioni umane, spingendoci a dividere le persone in “buone” e “cattive”.

L’origine e la diffusione del termine

Il termine “persona tossica” sembra essere stato coniato da Lillian Glass, autrice del libro Toxic People (1995). Pur non avendo una formazione psicologica, Glass ha reso il concetto popolare, trasformandolo in un vero e proprio marchio di successo. In seguito, altri autori hanno continuato a cavalcare l’onda, creando manuali per identificare e gestire questi “terroristi emotivi”.

Etichette e cultura del consumo

Come spiega Buenaventura del Charco, psicologo e autore del libro Hasta los cojones del pensamiento positivo (Sono stufo del pensiero positivo), questa etichettatura riflette una logica tipica della società consumistica: le relazioni diventano un mercato in cui alcune persone “danno valore” mentre altre lo “tolgono”. Questo approccio semplificato tende a inibire l’autocritica, spingendoci a incolpare gli altri anziché riflettere sul nostro contributo ai conflitti relazionali.

Ortiz aggiunge che le relazioni sono un’opportunità di crescita personale: quando qualcosa di un’altra persona ci disturba, potrebbe essere un segnale per esplorare le nostre emozioni e insicurezze. Invece, il concetto di “tossicità” ci spinge a fuggire o attaccare, evitando il confronto e la crescita.

Personalità disturbate o semplicemente scomode?

Molti tratti associati alle persone tossiche – come il narcisismo o la manipolazione – sono spesso confusi con sintomi di veri e propri disturbi della personalità. Tuttavia, equiparare questi comportamenti a una “tossicità” generica rischia di alimentare un’allarmismo inutile e di impedire una comprensione più profonda delle dinamiche relazionali.

Ortiz sottolinea che la crescente tendenza a “tagliare” i rapporti alla minima difficoltà riflette un narcisismo culturale: mettiamo i nostri bisogni al centro, evitando di affrontare le sfide che le relazioni naturalmente comportano.

Imparare a gestire le relazioni complesse

Del Charco invita a non vedere la diversità delle persone come una minaccia, ma piuttosto come un’opportunità per sviluppare la nostra resilienza e imparare a stabilire confini sani. “Non tutte le persone difficili devono essere eliminate dalla nostra vita,” afferma, “ma possiamo imparare a gestirle, ponendo limiti quando necessario.”

In conclusione, il termine “persona tossica” può sembrare utile a prima vista, ma rischia di ridurre la complessità delle relazioni umane a una dicotomia semplicistica. Le relazioni difficili esistono, ma spesso la soluzione non è fuggire, bensì affrontarle con maturità, riflettendo anche sul nostro ruolo e sulle nostre reazioni. In un mondo sempre più propenso all’etichettatura, forse il vero antidoto è coltivare empatia, autoconsapevolezza e capacità di dialogo.

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